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Recensione di Sandro Iovine  (Giugno 2007) 

Parte prima: con gli occhi dell’emozione

Risucchiati dalla vita, i ricordi sprofondano leggeri nell’oblio e, simili a fili di fumo aspirati e dispersi dal vento, si fondono in coscienza, dissolti dal tempo. Quasi impossibili da distinguere, portano con sé il modo in cui siamo, determinano ancora, senza che nemmeno ce ne accorgiamo, le nostre scelte. Sono alla base della nostra personalità eppure non siamo più in grado di riconoscerli. Solo nel dormiveglia della conoscenza riescono a emergere richiamati da sensazioni sottili e mai sopite. Un alito di vento che ti sfiora la pelle, la sfumatura di un profumo che si insinua nelle narici, il rumore stropicciato d’un battito d’ali o il cigolio sommesso di un vecchio ferro arrugginito, un piccolo segnale che risveglia il passato che vive in te. Lo anima, lo trasforma, lo alimenta, lo fa tornare in istanti confusi, in cui anche la vita sembra volerti ingannare. Frammenti sospesi tra reale passato e fantasie presenti in cui la vista s’annebbia per ricostruire, rigenerare nuove immagini. Visioni alle quali solo chi le possiede può accedere, visioni alla cui soglia nessun altro può affacciarsi. Allora capita di volere che anche altri le condividano, sia pure per un solo un istante. Verrebbe voglia di chiedere aiuto per comprenderne meglio il senso. 

Ma gli altri non possono vederle, si può provare a raccontargliele forse, ma è impossibile mostrargliele. Si pensa allora che sarebbe bello poter fare come le foto di un compleanno, come con quelle delle vacanze, trasformarle insomma in immagini accessibili a chiunque. Ma una fotografia non può fissare che qualcosa che non c’è davvero, che non c’è stato davvero, lì davanti all’obiettivo. Una fotografia non può bloccare le immagini che scivolano tra la mente e gli occhi. 

Eppure ci si può perdere nel tempo, spezzare il vincolo dato dall’orologio, e allora perché non si potrebbe rendere visibile l’invisibile, trasformare suoni stropicciati, cigolii di ruggine o aliti profumati in immagini? Inventare l’immagine del proprio pensiero, carica della polvere del tempo, carica di rimandi, carica di un è stato inafferrabile… 

Parte seconda: con gli occhi della ragione

Siamo correttamente abituati a concludere con Debray che «senza l’angoscia del precario non c’è bisogno di memoriale»1 e quindi che tra le finalità della fotografia ci sia quella del demandare la memoria di sé attraverso l’immagine, in una sorta di improbabile ricerca del superamento del limite fisico imposto dal ciclo vitale. Un placebo ad ampio spettro di diffusione e costo contenuto in grado di generare illusioni in cui perdersi all’interno di ingenui sogni di immortalità che aiutano controllare il terrore della fine. Tutto questo nella fotografia, come la pratica quotidiana e Barthes ricordano, passa attraverso l’azione della luce, la cui energia riflessa da quanto assunto come soggetto finisce per imprimersi sotto forma di traccia, resa visibile da svariati procedimenti chimici o elettronici, sull’elemento sensibile. Da qui la definizione del noto noema barthesiano del ça a été, l’interfuit, che, constatando «ciò che io vedo si è trovato là»2 delimita la natura stessa della fotografia sottoponendola all’ineluttabilità della presenza del soggetto di fronte alla camera al momento dello scatto. Certo, nonostante le schermaglie dello stesso Barthes («So già cosa diranno i nostri critici: come! Addirittura un libro, anche se piccolo, per scoprire ciò che a me è chiaro già a una prima occhiata?»3), rimane difficile attribuire a questa affermazione un valore che si scosti eccessivamente da quello di mera constatazione di un dato di fatto che, in quanto tale, appare difficilmente contestabile. È indubbio infatti che l’evidenza fisica dell’assunto non richieda ulteriori approfondimenti. 

Il problema sorge, però, se non ci si limita a considerare il contenuto dell’immagine come un’estensione del concetto utilizzato da Pieroni per definire il fattore tematico Luogo4. Ovvero si pone quando smettiamo di pensare alla fotografia come a una mera rappresentazione in cui l’intento dell’autore sia quello di descrivere le caratteristiche stereotipe o formali. Liberare la riflessione da un assunto simile significa in pratica sdoganare le potenzialità espressive dell’autore e quelle interpretative dell’osservatore, o per dirla in termini barthesiani dell’Operator e dello Spectator5. 

Proviamo quindi a mettere in discussione il fatto che quanto rappresentato dall’autore sia in effetti la mera evidenza visibile nel supporto fotografico. Assumiamo perciò che lo Spectrum, il fotografato, che si trovava inevitabilmente di fronte all’obiettivo, sia stato usato in forma simbolica. In quel caso l’immagine ottenuta smetterebbe di essere rappresentazione del soggetto, ma diverrebbe epifania del progetto creativo dell’autore, che per tramite del soggetto ha inteso rappresentare altro rispetto a ciò che fisicamente si è trovato di fronte alla propria fotocamera. 

In una simile ipotesi il fatto che l’immagine sia l’analogon del reale6 assumerebbe un’importanza assai relativa. Come rileva Marra, «Barthes, con specialismo semiotico, riconduceva lo statuto di analogicità riconosciuto dal senso comune alla fotografia a una sua particolarissima e in qualche modo paradossale condizione comunicativa»7 Barthes infatti sostiene che «senza l’immagine non è il reale; ma ne è quantomeno l’analogon perfetto, ed è precisamente questa perfezione analogica che, per il senso comune, definisce la fotografia. Appare così lo statuto particolare dell’immagine fotografica: è un messaggio senza codice »8. Tutto il ragionamento presuppone che non si possa considerare la fotografia altro che un analogon del reale, senza ipotizzare che il dato possa essere ininfluente all’interno della progettualità dell’autore. Marra chiarisce che «strutturalmente parlando, diciamo pure nella sua essenza, la fotografia era e rimaneva un’emanazione diretta del reale, una sua impronta»9. 

Ma dopo questa premessa torniamo finalmente alle immagini di Stefano Bernardoni. In esse infatti il passaggio dalla condizione della significazione a quella comunicazione vera e propria si esplicita in modo potente. Se per significazione intendiamo una generale condizione di ricchezza di senso che, indipendente dalla volontà di un autore-emittente, demanda al destinatario la valutazione dei fatti come oggetto di inferenza, appare chiaro che nel progetto di Bernardoni sia individuabile un processo di costruzione del formato per mezzo del quale il destinatario si trova nella condizioni di poter ricostruire (o rifiutare) il messaggio dell’emittente. Il suo fine non è certo quello di mostrare gli oggetti e le situazioni raffigurate in quanto tali, quanto piuttosto quello di rendere pubblica l’autoscopia che lo ha portato a riesaminare e mettere in gioco il percorso della sua formazione. Le sue immagini nel momento stesso del concepimento non riguardavano quell’istante, ma volevano raffigurare qualcosa di accaduto nel passato, impossibile perciò da collocare alla portata dell’obiettivo. I suoi soggetti vivono di una relazione segnica di tipo simbolico, si fondano cioè su una convenzione riferita ad un vissuto individuale, ma decodificabile in maniera ragionevolmente universale. Nelle sue immagini tende in pratica a diluirsi concettualmente, fin quasi a perdersi il valore indicale dei segni, ovvero l’aderenza alla contiguità fisica con l’originale, la cui inconfutabile presenza diviene pressoché irrilevante ai fini dell’interpretazione. 

La sua visione attraverso le immagini fotografiche si fa asincrona rispetto al reale, maturando all’interno del paradosso della fissazione dell’elemento sensibile di un tempo altro rispetto a quello in cui l’atto di fissazione effettivamente avviene. Il Bernardoni Operator si è quindi immerso in un tempo interiore in cui ha trascinato anche lo Spectator. Un qualche modo queste immagini infrangono il tabù del tempo, smantellano la dimensione sincronica per conquistare quella diacronica che permette all’uomo di viaggiare in una dimensione simile a quella degli antichi Dei affrancati dalla schiavitù mortale per loro natura. Le immagini che compongono Soglie Visive costringono dunque a riformulare la barthesiana definizione di Imago lucis opera espressa10 in termini di Ingenii atque memoriae imago lucis facinore espressa, in cui la sfumatura criminosa nell’azione espressa da facinus in luogo di opera, presuppone la ubris, implicita nella violazione di quella legge di natura che non consente all’essere umano di bloccare il tempo. Non più quindi immagini realizzate con l’azione della luce, ma immagini della creatività e della memoria realizzate con la complicità della luce.

1 Régis Debray, La nascita della morte in Vita e morte dell’immagine, Il Castoro, Milano 1999, pag.26

2 Roland Barthes, «È stato» in La camera chiara, Einaudi, Torino 1995, pag. 78.

3 Ivi, pag. 115.

4 Augusto Pieroni, Leggere la fotografia, EDUP, Roma 2003, pag. 156.

5 Roland Barthes, Operator, Spectrun, Spectator in La camera chiara, Einaudi, Torino 1995, pag. 10.

6 Roland Barthes, Il paradosso fotografico in L’ovvio e l’ottuso, Einaudi, Torino 1997, pag. 7.

7 Claudio Marra, L’analogon come assenza di codice in L’immagine infedele, Bruno Mondadori, Milano

2006, pag. 69.

8 Roland Barthes, Il paradosso fotografico in L’ovvio e l’ottuso, Einaudi, Torino 1997, pag. 7.

9 Claudio Marra, Caccia all’indice in L’immagine infedele, Bruno Mondadori, Milano 2006, pag. 78.

10 Roland Barthes, I raggi luminosi, il colore in La camera chiara, Einaudi, Torino 1995, pag. 82.

Sandro Iovine