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Articolo di Maurizio De Bonis  (Luglio 2006) 

Tratto dall’articolo pubblicato su Cultframe.it 

” Da decenni i teorici cercano di individuare la natura specifica della fotografia. Tra arte, testimonianza, documentazione storica, elaborazione chimica e nuova frontiera digitale, spesso si finisce per perdere di vista quello che è l’elemento fondamentale di questa disciplina: la sua sostanziale indeterminatezza, la sua evidente inafferrabilità. Ancor di più: non ci si rende conto che la fotografia permette un’operazione straordinaria: cioè quella di vedere e fermare ciò che l’occhio umano semplicemente decodifica e cataloga in modo approssimativo.

Dunque, attraverso il procedimento fotografico lo sguardo di ogni individuo si proietta in una dimensione intermedia, oscura, imprendibile che solo il dispositivo ottico riesce a percepire. Da ciò si evince che il mondo in cui viviamo è costituito da strati di senso, da sfumature inavvertibili direttamente connesse al mistero stesso della nostra esistenza.

Ci sono alcuni fotografi che interpretano in maniera molto attenta questa concezione della fotografia, che vanno al di sotto della patina della presunta realtà, che lanciano il proprio obiettivo in quei meandri che nascondo gli atomi del reale, la sua materia invisibile, in sostanza il suo vuoto.

Prendiamo il caso del vincitore del 9° Portfolio in Villa di Solighetto (TV). Stefano Bernardoni, questo il nome dell’autore, ha presentato un lavoro dal titolo emblematico: Soglie visive.

È un titolo che ha una doppia faccia: da una parte l’adesione semantica, più ovvia, alla parola soglia (cioè visione che non si distende fino all’interpretazione della realtà ma si ferma alla sua soglia, appunto), dall’altra il superamento stesso del concetto di soglia (inteso come porta, o confine) per divenire emblema dell’ingresso in una dimensione “altra”, dove le coordinate della rappresentazione visiva tradizionale saltano totalmente.

Bernardoni introduce il fruitore in un universo che utilizza fattori realistici ricollocati in un quadro espressivo dai tratti indefinibili; vuole rimescolare il senso di ogni fattore visibile. Così, la scelta del dettaglio, i tagli anticonvezionali delle inquadrature, le potenti sfocature, l’atmosfera onirica, la sospensione del senso contribuiscono a costruire un’architettura di segni visivi che tende più verso la poesia che verso la fotografia pura e semplice.

Fortunatamente Stefano Bernardoni si è sottratto ai laccioli nefasti del racconto fotografico (ossessione scolastica che distrugge innumerevoli talenti) per situare il suo discorso nell’ambito della riflessione, del pensiero, della produzione libera di immagini, immagini che non devono significare qualcosa ma devono solo comporre il mosaico delle sensazioni umane, il labirinto della psiche e dei suoi angoli più oscuri.

Un’immagine sfocatissima di un uomo che cammina solitario infagottato nel suo cappotto, o un’altra che ci presenta una figura indistinguibile, forse femminile, in una tempesta di ombre e luci ci raccontano moltissimo sulla condizione umana, sulla solitudine, sull’angoscia, e sul senso di vacuità che avvolge ogni cosa, più che tanti reportage “perfettini” e tutti uguali, quasi sempre generati da uno sguardo colonialista e sfruttatore delle miserie altrui, dunque moralmente scorretto, mascherato da atteggiamento filantropico e amorevole nei confronti dei più deboli. ”

 

Maurizio de Bonis

Giornalista. Critico. Direttore Magazine on line CultFrame